Cattura e stoccaggio della CO₂, ma anche riutilizzo e rimozione. Quali sono le tecniche disponibili, le possibilità di impiego e il loro impatto nella lotta al cambiamento climatico?

Argomenti in primo piano:

  1. Tecnologie per gestire la CO₂
  2. Il costo elevato della tecnologia CCS
  3. L'importanza di un utilizzo massiccio delle rinnovabili

La lotta alle emissioni climalteranti passa anche per le tecnologie che permettono di gestire al meglio la  CO₂, soprattutto in quei settori dove la decarbonizzazione è più lunga e complessa. Si tratta di tecniche, ancora in parte sperimentali, volte a intercettare e rimuovere il carbonio presente nell'atmosfera, che - paradossalmente -  è troppo, da un lato, e troppo poco dall'altro.

Tecnologie per gestire la CO₂

Infatti, se è vero che l'alta concentrazione di carbonio è responsabile del cambiamento climatico, è anche vero che questo è estremamente diluito: un fattore che ne complica notevolmente la rimozione. Inoltre, questa estrema diluizione – ad oggi siamo a 420 ppm circa – rende impossibile utilizzare i sistemi di filtraggio usati per altre sostanze. Difficile non significa impossibile: la natura infatti ci ha fornito potentissimi filtri come il plancton negli oceani (che assorbe il 30% della  CO₂) o le piante che assorbono tuttora la maggior concentrazione di  CO₂. Purtroppo però, in entrambi i casi, il potere diminuisce – per colpa del disboscamento, degli incendi o dell'inquinamento marino – e dall'altra parte la concentrazione della CO₂ aumenta.  

Ecco perché si sta sperimentando l'impiego di sistemi di cattura tecnologici che però, per buona parte, mimano questi processi naturali.

CCS, CCU, CDR sono le denominazioni usate per indicare questi procedimenti di cattura, stoccaggio e rimozione. Tre sigle, quindi, che indicano tecnologie complementari, importanti per valutare il reale impatto delle misure prese sui livelli di CO₂. Vediamo cosa significano nello specifico. 

  • CCS (Carbon capture and storage): si articola in tre fasi: la cattura del carbonio direttamente dagli scarichi industriali, il trasporto e lo stoccaggio geologico permanente in impianti sotterranei. È il termine più utilizzato perché fa riferimento alla maggior parte dei procedimenti in essere. 
  • CCU (Carbon capture and utilisation): fa riferimento al riutilizzo immediato del carbonio (ad esempio per fertilizzare le serre, o nelle bevande) o come componente di nuovi prodotti (come calcestruzzo, combustibili, prodotti chimici). La CCU è considerata interessante sotto molti punti di vista: anzitutto quando può essere trasformata a sua volta in energia, sostituendo l'uso aggiuntivo di combustibili fossili; in seconda battuta quando diventa parte integrante di materiale da costruzione e quindi permane in un circuito chiuso tanto a lungo da poter considerare definitiva la rimozione. In molti casi di CCU, però, il carbonio viene rilasciato rapidamente nell'atmosfera: così si può parlare solo di emissioni ritardate e non di vera e propria rimozione. 
  • CDR (Carbon Dioxide Removal): indica la rimozione permanente dell'anidride carbonica  e si riferisce alle attività antropogeniche che rimuovono la CO₂ dall'atmosfera, stoccandola durevolmente in riserve geologiche, terrestri o oceaniche.  

Queste, pur essendo spesso oggetto di importanti studi e finanziamenti, sono in larga parte ancora in fase prototipale, quindi non impiegate su larga scala. Un dato è esemplificativo: secondo l'IPCC (Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico fondato dalle Nazioni Unite) nel 2021, gli impianti CCS commerciali operativi o in costruzione in tutto il mondo erano 31, con una capacità di catturare 40 milioni di tonnellate di CO₂ l’anno. Un livello ben al di sotto delle reali esigenze: secondo una ricerca del Global CCS Institute, la CCS a livello mondiale dovrà crescere di più di 100 volte entro il 2050 per  avere un ruolo di rilievo nel raggiungimento degli obiettivi climatici fissati dagli Accordi di Parigi. 

Il costo elevato della tecnologia CCS

Il motivo di questo ritardo è dovuto a due fattori principali: economico e di rischio. Dal punto di vista dei costi, proprio l'estrema diluizione della CO₂ nell'atmosfera rende necessario movimentare enormi quantità di aria per catturarne un quantitativo significativo. Questo procedimento costa parecchio. C'è poi un secondo fattore di criticità, sottolineato sempre dall'IPCC: stoccare anidride carbonica nel sottosuolo potrebbe rivelarsi dannoso a causa degli accumuli di pressione e al rischio di fuoriuscite accidentali. 

L'importanza di un utilizzo massiccio delle rinnovabili

La domanda a cui cercano di rispondere i diversi report sul tema è, principalmente, una: ne vale la pena? Su questo il rapporto dell'IPCC dello scorso aprile è molto chiaro: sì. Il motivo infatti è da ricercare in quello che viene chiamato overshoot, cioè lo sconfinamento, seppur momentaneo, rispetto al +1,5 °C fissati dagli Accordi di Parigi. Superata l'asticella, per rientrare al di sotto del livello fissato, non sarà più sufficiente raggiungere un livello di emissioni pari a zero, ma bisognerà per forza sottrarre CO₂ dall'atmosfera. Ecco perché le tecnologie di CCS diventano così importanti. Anche il loro costo, seppur elevato, sarà comunque minore rispetto ai danni del surriscaldamento globale. 

L'IPCC suggerisce anche la tecnologia che garantisce i maggiori risultati a fronte della minima spesa: le Nature based Solutions, cioè il mantenimento e il miglioramento di quanto la natura già offre, quindi riforestazione, gestione del suolo, soprattutto in città, e biodiversità. Quest’ultima da sola non è sufficiente a riequilibrare l'eccesso di CO2 esistente, combinata però alle tecnologie artificiali rappresenterebbe parte della soluzione del problema. Perché la strada maestra – ricorda l'IPCC – passa da un utilizzo massiccio delle rinnovabili. 

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